martedì 22 aprile 2008

La costruzione dell’altro e la comunicazione della diversità. Oltre una visione dicotomica del mondo

rilettura degli appunti del seminario "Oltre l'orientalismo e l'occidentalismo"
Le migrazioni non sono un fenomeno storico moderno, tuttavia siamo in presenza di un fenomeno migratorio diverso per quantità e qualità che coinvolge tutti i continenti. Oggi si emigra da tutte le parti più povere del mondo a quelle più ricche e la scelta delle migrazioni segue una complessa rete di itinerari condizionata da fattori geografici, economici, politici e culturali. E’ innegabile, comunque che i grandi flussi migratori del nostro tempo costituiscono degli effetti macroscopici della disparità di sviluppo (economico, sociale, politico) fra i paesi ricchi e il resto del pianeta.

Il carattere incontrollabile e apparentemente inarrestabile dei fenomeni migratori del nostro tempo costituisce un grosso problema anche per l’Europa dove la questione tocca fortemente l’opinione pubblica: da un lato si è manifestata la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione, d’altro canto il fenomeno ha suscitato una forte reazione identitaria. Sicuramente l’incremento dei flussi migratori ha portato molto scompiglio e, talvolta, ha determinato manifestazioni di rigetto e di intolleranza preoccupanti perché nessuno – né le popolazione, né i governi - erano pronti a gestire la situazione.

I protagonisti dei flussi migratori sono tutti diversi per cultura lingua, religioni e valori ed è fondamentale che riescano ad integrarsi nei paesi dove migrano per lavoro e in cerca di una vita migliore; d’altro canto i popoli dei paesi meta di migrazioni devono essere educati e messi nelle condizioni di essere predisposti positivamente nei confronti di queste persone e preparati al cambiamento.
L’altro è una fonte imprescindibile di conoscenza sulla realtà, tuttavia la costruzione delle sue rappresentazioni funziona attraverso processi arbitrari di semplificazione e c’è una sorta di schizofrenia che ce lo fa vedere in maniera caricaturale tra fascinazione e criminalizzazione. La nascita di stereotipi è del tutto normale che avvenga: è il meccanismo naturale che usiamo per risparmiare risorse cognitive nel rapportarci con la realtà per cui la mente incorpora l’altro e ne fa un prodotto culturale. Lo stereotipo in particolare si inserisce all’interno di un vero e proprio modello culturale coerente e radicato. Il problema infatti è che quando entrano in gioco stereotipi e pregiudizi agli altri vengono attribuite identità fisse, sclerotizzate che non corrispondo a verità perché non considerano il processo di adattamento delle persone. In tal senso, per prendere coscienza, è importante conoscere quali sono i propri meccanismi di lettura della realtà e ricordare sempre che la cultura non è fissa e monolitica, ma di natura fluida e sempre in movimento.

Diversi modi di vedere la realtà non devono essere necessariamente messi in opposizione fra loro. E’ corretto riconoscere le differenze, il problema nasce quando queste vengono enfatizzate e fatte oggetto di politicizzazione. Ci sono due visioni del mondo in particolare che, nel nostro tempo, sono state presentate come opposte e che per questo sono diventate pericolose: è il caso dell’orientalismo (1978) e l’occidentalismo (2004). Queste visioni dividono il mondo tra Oriente e Occidente. Ma la polarizzazione geografica richiede uno sforzo mentale alle persone: solo con un’opera di grande semplificazione si può immaginare, a fatica, il pianeta diviso tra Oriente e Occidente perché i confini sono una costruzione mentale più che reale in fondo.

Dov’è il centro? L’idea della superiorità colloca il centro del mondo in luoghi diversi a seconda del paese di appartenenza del disegnatore della cartina geografica. Ad analizzare la questione bisogna stare molto attenti a non cadere nelle trappole dell’immaginario che ci fanno credere cose che non sono. A testimonianza di questo sappiamo tutti che non si può parlare di un Occidente compatto e cristiano: in realtà non ce ne sarebbe neanche solo uno di Occidente, ma due per la precisione! E poi l’Occidente è ancora occidentale? L’islam è in Occidente.
Hasan Hanafi prova a giustificare la necessità della polarizzazione del mondo alla luce di una comunicazione non paritaria tra popoli: va trovato un linguaggio culturale e politico che dia ai popoli afroasiatici una grammatica del senso. Nella visione di Hanafi, ad esempio, i popoli d’Oriente trattati come “l’altro” negli ultimi 700 anni sentono l’esigenza di ricostruire e controllare la propria immagine, il proprio “io”. Rileggendo la storia in termini di alternanza tra un’ egemonia culturale e l’altra, Hanafi crede che stia per iniziare una fase di egemonia dell’Oriente sull’Occidente: gli indicatori del declino della cultura occidentale risiederebbero in sintesi nell’idea della morte di Dio, mentre dall’altra parte risulterebbe una prova del cambiamento la riaffermazione dell’Islam militante e della teologia islamica della liberazione. Alla luce di questo pensiero dovremmo domandarci se esiste un’alternativa all’Occidente: l’unica alternativa potrebbe essere l’islam e per questo bisogna chiedersi anche se esista una via islamica alla democrazia. Questa visione non può considerarsi una proposta che vada oltre l’orientalismo e l’occidentalismo, ma si colloca benissimo nella situazione attuale dove risulta difficilissimo dare delle soluzioni.

E’ anche vero che conoscere l’altro è il primo modo per possederlo: l’egemonia non è altro che una forma di appropriazione dell’altro in termini politici. Questo può spiegare le resistenze all’idea di modernità da parte di molti popoli. Modernismo e colonialismo sono infatti considerati spesso sinonimi, l’idea che la tradizione rallenti la modernità ha fatto si che alcuni popoli siano andati a ridefinire le proprie radici per quello che non sono, distruggendo di fatto il passato. Andrebbe riformulato anche il concetto eurocentrico di laicità dello stato che purtroppo viene discreditato anch’esso dalla storia coloniale europea quasi come sinonimo di autonomizzazione del potere egemonico insieme: per cominciare questo concetto non trova corrispettivi positivi in tutto il mondo, ad esempio, per l’islam il rapporto fra uomo e Dio è considerato del tutto naturale. La globalizzazione stessa è stata letta da alcuni come forma di egemonia americana dell’ordine internazionale: quest’ordine sarebbe stato creato e mantenuto da uno stato egemonico impegnato a sagomare a proprio vantaggio le relazioni tra gli stati in modo coercitivo (imperialismo), basandosi sulla convergenza di interessi o mediante la creazione di istituzioni multilaterali basate sul mutuo consenso in grado di oscurare la gerarchia esistente (moderazione strategica).

Quando nascono delle tensioni è perché probabilmente ci stiamo mescolando tra persone che portano tante storie diverse addosso, tuttavia l’importante è che queste tensioni trovino dei canali per emergere senza essere negate né enfatizzate. Oltretutto spaccare il mondo in due blocchi e contribuire alla costruzione di un fossato immaginario è oltremodo insensato nell’ottica della globalizzazione stessa. In ogni caso nel mondo reale è difficile dire chi è la vittima e il carnefice di un conflitto perché entrambe le parti sono in concorrenza e ci si trova a fare i conti con due vulnerabilità che hanno bisogno di riconciliarsi socio-emotivamente e ristabilire un clima di fiducia. Ma le cause dei conflitti non c’entrano niente con la cultura, le culture non si scontrano, lo fanno le persone perché le risorse sono limitate o perché ci sono dei bisogni psicologici che necessitano di essere saziati.

L’evidente finalità sociale di questi concetti (oriente e occidente) è quella di spiegare noi stessi attraverso gli altri e di rafforzare il senso di identità e appartenenza. Si tratta di identità reattive che si alimentano a vicenda. Tuttavia queste categorie mentali oggi non sono sufficienti né esaustive per spiegare il mondo nella sua reale complessità.
I media giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di rappresentazioni, ovviamente anche delle rappresentazioni dell’altro: l’influenza sociale che esercitano ha molto a che vedere proprio con la percezione effettiva che abbiamo della realtà. Il sistema della comunicazione dovrebbe fermarsi a riflettere e fare un’attenta opera di autocritica. Il giornalismo in particolare viene spesso accusato di alimentare l’odio e di contribuire alla costruzione di un immaginario scontro tra civiltà che, come una specie di profezia che si auto-adempie, ci sta conducendo ai ferri corti verso un conflitto tra Oriente e Occidente che storicamente non ha ragion d’essere: il fatto è che si considera sempre l’evento, le visioni devianti con poche eccezione che non riescono a restituisce una rappresentazione dell’altro in condizioni di normalità. Invece dello scontro bisognerebbe promuovere un incontro di civiltà che tutto sommato hanno tante cose in comune: a sottolineare come in passato ci siano stati momenti di vivace sinergia che hanno portato ad un arricchimento collettivo.

Pensare che si siano delle strategie giornalistiche per discreditare l’altro mi sembra un po’ forte, ma ricorrono episodi di omogeneizzazione e decontestualizzazione dei fatti dove gli altri per di più sono protagonisti in casi di estremismo violento, agenti di azioni negative, esclusi o fanno qualcosa al di fuori della mentalità predominante. Il rischio, non da poco, è quello di incappare in una guerra fra opposte ignoranze! Parafrasando una famosa citazione non è importante che una cosa sia vera, ma è sufficiente che venga creduta vera per avere effetti reali.
L’Europa in tutto questo continua a sentirsi minacciata dal fenomeno migratorio persistente e assomiglia ogni giorno di più ad una fortezza: è accecata dal timore di essere fisicamente sommersa da ondate di popoli più numerosi e demograficamente vitali e la caduta dei grandi sistemi ideologici ha contribuito, nel tempo, ad alimentare vecchie identità nazionali e religiose che sono state riscoperte e gelosamente difese. Intanto l’impatto della globalizzazione sta mettendo in crisi la stessa idea ottocentesca dello stato nazionale come comunità sovrana e compatta al suo interno. E’ proprio in questo modo trova senso il progetto di unità sovranazionali come la stessa Unione Europea, ma anche l’esplosione di micro nazionalismi, localismi e separatismi che vanno ad alimentare la tensione. Saranno i prossimi anni a dirci se la nuova tendenza ad una chiusura delle frontiere prima o poi metterà capo ad un modello aggiornato della “fortezza Europa” di un tempo. Lo spazio euro-mediterraneo però potrebbe ancora tornare ad essere un centro di pace e di scambio interculturale. In questo senso si colloca l’idea di creare l’Unione Mediterranea su un modello sagomato sul G8 e tutte le iniziative di cooperazione culturale finalizzate ad aumentare la reciproca conoscenza: la questione più controversa resta il processo di pace in medio oriente per il quale il partenariato euro-mediterraneo risulta essere invece piuttosto debole

A dispetto della paura, comunque, il continente europeo non è stato capace e non può permettersi di mettere fine all’immigrazione: sembra proprio che all’Europa serviranno milioni di lavoratori se vorrà mantenere la sua crescita economica in futuro, anche a fronte del rallentamento della sua crescita demografica. Inoltre l’immigrazione dovrebbe essere considerata portatrice di nuovi valori, nuove usanze e culture superando unicamente la visione dell’afflusso di altra forza lavoro: da qui l’esigenza di interrogarsi di più sulle strategie di gestione del conflitti per la promozione di una pedagogia dell’intercultura, per educare tutti alla convivenza civile. Fa ben sperare anche l’esistenza di un interesse internazionale affinché venga garantita la tutela dei flussi per motivi umanitari.
A mio avviso bisognerebbe studiare con maggiore attenzione le rappresentazioni dell’altro nello spazio euro-mediterraneo in termini di cultura, politica ed economia: l’impressione è che si stia sottovalutando il problema e che i tentativi di risolverlo siano stati fatti solamente in termini economici e/o politici nella maggior parte dei casi. Nella realtà delle cose i tre elementi sono fortemente interconnessi e la cultura comunque non andrebbe mai sottovalutata.

Sicuramente c’è bisogno di un nuovo racconto della realtà! Nel rappresentare l’altro rappresentiamo noi stessi, ma soprattutto non dovemmo mai dimenticarci che l’altro è dentro la comunità che cambia e non al di fuori di essa immobile e monolitico.

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