martedì 22 aprile 2008

EUROPA E IMMIGRAZIONE - Le politiche di controllo migratorio negli ultimi 20 anni

"Un mondo come quello in cui viviamo in cui da un lato si accrescono gli squilibri economici e demografici tra le varie parte del pianeta, dall’altro aumentano gli scambi commerciali, la circolazione delle informazioni e le possibilità di spostamento da un luogo all’altro, non poteva non essere segnato da un considerevole incremento dei flussi migratori"[1].

Non si tratta di un fenomeno storico nuovo, tuttavia sono nuove le sue dimensioni e la sua estensione planetaria: siamo in presenza di un fenomeno migratorio nuovo per quantità e qualità che coinvolte tutti i continenti; ci si trova sempre più di fronte a dei veri e propri esodi di massa in cui milioni di persone, intere popolazioni lasciano i loro paesi di origine in cerca di una vita migliore. "Oggi si emigra da tutte le parti più povere del mondo a quelle più ricche e la scelta delle migrazioni segue una complessa rete di itinerari"condizionata da fattori geografici, economici, politici e culturali [2].

Africa, Sud-Est asiatico, Medio oriente, alcuni paesi dell’America Latina e dell’America Centrale, L’Europa dell’est sono i luoghi di partenza di emigranti; America del nord, Australia, alcuni paesi dell’Est asiatico, i paesi più ricchi dell’America Latina, l’Europa dell’ovest sono invece i paesi di arrivo di queste ondate migratorie.

I protagonisti dei flussi migratori sono tutti diversi e non solo per cultura lingua, religioni e valori. Innanzitutto c’è una profonda differenza tra l’emigrante e il profugo che non si può dimenticare di sottolineare.

  • L’emigrante è in genere colui che mantiene relazioni con il proprio paese (mantiene, per esempio, la cittadinanza), continua a godere di protezione diplomatica. A livello internazionale non gode di particolari solidarietà o status.

  • Il profugo, o meglio il rifugiato, è invece definito come colui che è stato privato formalmente e di fatto della protezione da parte del suo paese. Questa persona, che non può fare ritorno nel suo paese dal quale è fuggito, ottiene lo status di rifugiato in un altro paese e viene protetto e aiutato a livello internazionale. Solo i profughi sono milioni di persone e costituiscono una parte importante del flusso migratorio che interessa anche l’Europa: il loro numero continua ad essere in costante aumento.

E’ impossibile calcolare esattamente quanti siano gli emigranti e i profughi nel mondo [3]. Quello che è certo è che nessun popolo, nessuna persona abbandona il proprio paese se non spinto dall’idea di trovare una “chance di sopravvivenza”. La portata di questo flusso è di difficile quantificazione anche perché purtroppo gran parte di questi spostamenti avvengono in forma clandestina. Fra le cause di migrazione il fattore economico sta diventando sempre più determinante.

Le grandi migrazioni negli ultimi vent’anni hanno raggiunto proporzioni così allarmanti da mettere in pericolo la pace e la stabilità mondiale.

Il carattere incontrollabile e apparentemente inarrestabile dei fenomeni migratori del nostro tempo costituisce un grosso problema per l’Europa dove la questione tocca fortemente l’opinione pubblica: da un lato si è manifestata la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione, d’altro canto il fenomeno ha suscitato una forte reazione identitaria [4]. Sicuramente l’incremento dei flussi migratori diretti verso l’Occidente ha portato molto scompiglio e, talvolta, ha determinato fenomeni di rigetto e di intolleranza preoccupanti perché nessuno – né le popolazione, né i governi - erano pronti a gestire la situazione.


Negli anni Novanta si è parlato molto dell’unificazione dell’Europa anche se era attraversata da profonde divisioni, non in ultimo proprio le divisioni razziali: subito dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si verificano difatti attentati a sfondo razziale e riprendono forza i partiti di estrema destra che invocano forti restrizioni all’immigrazione e ai diritti degli stranieri [5]. I flussi migratori alimentano molta paura: ansie e repulsione hanno raggiunto anche punte di xenofobia [6].


Tutt’ora l’Europa si sente minacciata dal fenomeno migratorio persistente; è accecata dal timore di essere fisicamente sommersa da ondate di popoli più numerosi e demograficamente vitali e la caduta dei grandi sistemi ideologici ha contribuito, nel tempo, ad alimentare vecchie identità nazionali e religiose che sono state riscoperte e gelosamente difese. Intanto l’impatto della globalizzazione sta mettendo in crisi la stessa idea ottocentesca dello stato nazionale come comunità sovrana e compatta al suo interno [7]."E’ proprio in questo modo trova senso il progetto di unità sovranazionali come la stessa Unione Europea, ma anche l’esplosione di micro nazionalismi, localismi e separatismi che vanno ad alimentare la tensione" [8].


A dispetto della paura, comunque, il continente europeo non può permettersi di mettere fine all’immigrazione: sembra proprio che all’Europa serviranno milioni di lavoratori se vorrà mantenere la sua crescita economica in futuro, anche a fronte del rallentamento della sua crescita demografica [9]. Già adesso la maggior parte dei governi europei si trova ad affrontare una carenza di manodopera e, in ogni caso, gli stranieri continuano ad arrivare nonostante i rischi e la brutta accoglienza [10].

In una visione più ottimista l’immigrazione può anche essere considerata portatrice di nuovi valori, nuove usanze e culture superando unicamente la visione dell’afflusso di altra forza lavoro. "Da qui l’assunzione del multiculturalismo come valore positivo. Da qui l’idea di una società multietnica in cui le differenze siano solo ammesse come cosa normale (piuttosto che tollerate come eccezioni) ma anche adeguatamente protette e valorizzate, soprattutto in ambito scolastico [11].

Si vuole sottolineare altresì che le migrazioni di massa sono una causa e un effetto della povertà e del limitato sviluppo di molti paesi nel mondo. In genere, riguardo al fenomeno della migrazione, viene sempre sottolineato il versante effetto e meno quello di causa della miseria. Tuttavia bisogna pensare che la ricchezza di un paese è costituita anche dalle sue risorse umane, cioè dalle persone, dalle loro capacità e dalle loro energie. E se un paese perde centinaia di cittadini – i più giovani, i più istruiti – che se ne vanno per cercare fortuna altrove, perde risorse preziose per il uno sviluppo, compensate solo in minima parte del denaro che questi ex cittadini invieranno in patria. E’ innegabile, comunque che i grandi flussi migratori del nostro tempo costituiscono degli effetti macroscopici della disparità di sviluppo (economico, sociale, politico) fra i paesi ricchi e il resto del pianeta.

Lasciando parlare i dati, il flusso di immigrati in Europa nell’ultimo ventennio è costantemente aumentato, raggiungendo all’incirca la quota di 19 milioni di persone [12]. Le motivazioni di tanta attrattiva vanno ricondotte "ai trascorsi coloniali dei Paesi europei - Francia e Inghilterra in primis - che hanno lasciato in eredità canali privilegiati di ingresso per le popolazioni provenienti dalle ex-colonie, ma anche al processo di allargamento dell’Unione, che ha permesso il progressivo ingresso di cittadini provenienti dai Paesi del Centro e dell’Est Europa […] "[13]

La Gran Bretagna e la Francia hanno cominciato a fare i conti con l’eredità dei loro imperi molto prima degli anni Novanta e benché entrambe si sono distinte per politiche d’immigrazione aperte, va sottolineato che disegnano storicamente due situazioni molto diverse [14].

"Il Commonwealth britannico era una famiglia di nazioni e i suoi abitanti dovevano essere liberi di muoversi al su suo interno"[15]. Fin dagli anni Cinquanta inizia però a crescere la preoccupazione per la possibilità di una immigrazione illimitata: ciò ha portato progressivamente ad un inasprimento delle politiche d’immigrazione. Durante gli anni novanta la situazione in Inghilterra si è già abbastanza stabilizzata grazie a forti restrizioni; il nuovo problema riguarda semmai la richiesta di asilo da parte di migliaia di profughi. Sebbene vincolato per legge e in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite per i rifugiati (sottoscritta nel 1951) il governo britannico alle soglie del 2000 rende la vita difficile anche agli aspiranti rifugiati attraverso una brutta accoglienza.

In Francia invece la politica dell’immigrazione era profondamente ispirata ai valori repubblicani rivolti a forgiare la popolazione in una nazione unita, omogenea e patriottica. Il multiculturalismo rappresenta un’eresia per lo Stato francese: "gli immigrati e i loro figli nati in Francia potevano facilmente acquisire la cittadinanza francese, ammesso che ne accettassero gli obblighi di lealtà alla nazione, alla lingua e alle norme sociali francesi"[16]. La questione immigrazione diventerà gradualmente, anche in questo caso, un problema politico e sociale di difficile risoluzione: le politiche di rimpatrio non risultano sufficienti, il rafforzamento del ruolo svolto dall’Islam nella vita pubblica francese alimenta malumori, nel frattempo continuano ad accadere terribili incidenti che mettono a rischio la stessa sicurezza pubblica [17].

In qualsiasi modo, nessun paese europeo è stato colpito dai recenti flussi migratori come la Germania a dispetto delle sue restrittivissime leggi in materia di concezione della nazionalità.

"Qualsiasi tedesco dell’Est che riuscisse a trasferirsi nella Repubblica federale era il benvenuto"
almeno fino al 1989: quando il flusso si è fatto troppo insistente sono state prese misure puntuali, nel 1991 è stata fissata una quota limite annuale con il risultato di un rallentamento graduale dei nuovi arrivi anche se rimasero comunque in molti facendo si che la popolazione straniera continuasse a crescere
[18]. "Di fatto il governo tedesco ha facilitato l’accesso alla cittadinanza per quelle persone che erano arrivate in Germania molti anni prima e per i loro figli, d’altro ha predisposto una formidabile serie di ostacoli per i nuovi arrivati specialmente per i rifugiati in cerca di asilo politico"[19].

Le misure restrittive adottate dai paesi europei più ricchi per ridurre l’afflusso di manodopera straniera non hanno però sortito gli effetti desiderati: "si sono sviluppati di conseguenza canali illegali di immigrazione clandestina e sono aumentate le domande di ricongiungimento familiare"[20]. D’altronde la disperazione, la fame, la speranza di vivere meglio non riconoscono frontiere e non rispettano i confini degli stati ed è noto che la malavita organizzata ha trovato negli espatri clandestini una ricca fonte di guadagno. L’effetto più evidente di questo cambiamento tuttavia è stata la scelta di nuove mete: si sono sviluppate nuove correnti anche verso paesi tradizionalmente esportatori di manodopera [21]. I paesi maggiormente interessati da questa tendenza sono stati quelli del Mediterraneo (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) [22].

"Fino agli anni ottanta le frontiere dell’Italia erano rimaste molto permeabili". Nel 1986 "il Parlamento italiano approvò una legge in cui si definiva una nuova politica per l’immigrazione", primo passo verso una politica più esaustiva in materia [23]. Ma il crescete senso di allarme avvertito in tutta Europa ha avuto ben presto conseguenze interne importanti anche nell’area politica ed elettorale italiana: la Lega Nord e il Movimento sociale italiano (MSI) hanno preso piede e sono entrati a far parte del governo nella coalizione del Polo delle libertà [24]. Nel corso degli anni novanta si sono irrigidite di conseguenza le leggi sull’immigrazione del nostro paese, sono aumentate le espulsioni e soprattutto abbiamo assistito all’accrescimento di un sentimento anti-immigrazione [25].

Di fronte alle diverse situazioni degli stati europei si potrebbe pensare all’impossibilità di un’armonizzazione delle politiche europee in materia di immigrazione e asilo politico. Ma di quale unità europea stiamo parlando?

Eppure l’Europa cerca da tempo, in linea con la visione dei primordi del sogno europeista, di incoraggiare gli spostamenti riconoscendo il diritto al free movement di tutti coloro che risiedono sul suo territorio tuttavia [26].

Nel lungo percorso di costruzione dell'unità europea, la libera circolazione delle forze del lavoro comincia ad essere garantita fin dai trattati di Roma (25 marzo 1957) che istituirono la Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom) e la Comunità Economica Europea (CEE) grazie alla quale vennero fatti anche i primi passi verso la liberalizzazione degli scambi fra i paesi membri.

Nel 1985 in Lussemburgo è stato firmato un accordo nella città di Schengen che ha determinato l’inizio di una politica comune in Europa in materia di controllo dei confini attraverso la costituzione di un’area di libera circolazione per i cittadini degli stati aderenti. Ma la forte preoccupazione che le frontiere dei paesi del sud, in particolare l’Italia e la Spagna, fossero permeabili, permettendo agli immigrati di aprirsi un passaggio verso le grandi città dell’Europa nord-occidentale ha comportato l’opposizione all’accordo di Schengen di alcuni stati europei (Regno Unito, Irlanda).

Ben presto gli stati aderenti al Trattato di Schengen, il quale entrò effettivamente in vigore soltanto nel 1990, stabilirono anche nuove politiche comuni e la creazione di una banca dati chiamata Sistema di Informazione di Schengen, che ha il compito di fornire alla polizia di frontiera un’informazione immediata sulle origini e la fedina penale dei potenziali entranti [27].

Questi provvedimenti possono rappresentare un normale miglioramento del lavoro della polizia nel tentativo sensato di mettere fine, scoraggiare l’immigrazione clandestina oppure posso essere considerati come misure pensate ad hoc per tenere lontani i poveri, i perseguitati che, naturalmente aspirano a godere delle ricchezze occidentali [28]. Risulta evidente che gli europei stanno cercando di chiudere le porte a nuovi emigranti, forse anche il relazione alla crescente intolleranza nei confronti degli extracomunitari già presenti sul territorio che costituiscono una enorme sfida per l’integrazione.

I contorni vagamente federali della futura Unione Europea (UE) sono stati disegnati con gli accordi di Maastricht del dicembre del 1991: è stato definito l’ambizioso calendario che avrebbe portato il 1° gennaio del 1999 ad una moneta unica europea e sono state fissate genericamente le procedure che avrebbero consentito ai governi di pervenire a decisioni comuni e azioni comuni nei settori della sicurezza interna, della politica estera e della difesa [29]. La ricerca di una politica comunitaria che favorisca la libertà di circolazione è infatti stata riaffermata anche nel 1992 con la creazione del “mercato unico”.

L’ostacolo più grande al processo di armonizzazione delle politiche nazionali di immigrazione è rappresentato dalla diversità dei modelli di regolazione degli ingressi adottati dagli stati membri.

Il rapporto che ogni singolo stato stabilisce tra la domanda di immigrati e i modelli di regolazione che ne assicurano prima ingresso e, in seguito, integrazione sociale e politica non trova ancora riscontri nell’Unione. Si può parlare di due diverse politiche in materia: una che controlla i flussi attraverso il sistema dei permessi di lavoro cosiddetti work permits (Francia, Gran Bretagna e Germania) e un’altra basata sulla determinazione annuale di “quote” di ingresso (Spagna e Italia) [30].

Secondo la Commissione Europea gli stati membri dell’Unione dovrebbero orientarsi verso l’adozione di una politica di work permits, tuttavia questa non sembra essere necessariamente la prospettiva migliore: "il ricorso alle quote si configura come un sistema di managment degli ingressi in grado di colmare il mismatch nel mercato del lavoro" [31]. Di fatto nessuno dei due meccanismi si è dimostrato adeguato ed efficace nel controllo dell’immigrazione, al punto che si vanno diffondendo forme ibride di regolazione degli ingressi [32].

Con il Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore il 1° maggio del 1999, viene dato avvio alla costruzione di un modello europeo di gestione della materia orientato a trasferire nella sfera delle competenze comunitarie le politiche in materia di visti, immigrazione e asilo: "Nel corso della stesura del trattato si decide appunto di integrare “l’aquis” di Schengen […] nell’Unione Europea" per dare concretezza al principio della libera circolazione delle persone ponendo fine alla strategia del “doppio binario” (intergovernativo e istituzionale) che aveva caratterizzato fino a questo momento le politiche degli Stati Europei in materia d’immigrazione e asilo [33].


Una svolta nella gestione europea e comunitaria dell’immigrazione e dell’asilo viene segnata dal vertice di Tempere dell’ottobre del 1999. In questa occasione vengono indicate le linee-guida per attuare le disposizione del Trattato di Amsterdam alla luce dell’improrogabile necessità di strategie di azione improntate sulla collaborazione attiva; la strategia si dispiega su quattro aree di intervento: [34]

  • partenariato con i paesi di origine

  • regime europeo comune in materia di asilo

  • equità di trattamento

  • gestione dei flussi

Per il momento, il problema della regolazione degli ingressi per motivi umanitari e per asilo resta centrale nella politica europea anche se il numero delle richieste di asilo conosce una diminuzione nell’arco degli anni Novanta (tranne qualche eccezione, es. la Germania) [35].

Volendo classificare gli strumenti di controllo migratorio esterni a disposizione dell’Europa senza ricollegarli necessariamente alle strategie politiche di volta in volta perseguite dai governi, si possono rintracciare tre grandi famiglie [36]:

1. un primo insieme di strumenti che mira ad intervenire sul potenziale migratorio presente in una determinata area: accordi tra stati, progetti di sviluppo nei paesi o regioni a maggior rischio emigratorio o lo svolgimento di operazioni di pacificazione;

2. un secondo gruppo di meccanismi di controllo delle dimensioni e composizione dei flussi: la manipolazione della definizione dei canali d’ingresso, l’introduzione di sistemi di quote o di contingente e la politica dei visti;
3. Un terzo complesso di meccanismi collegato con le operazione di controllo alla frontiera: illegalità prevention e eligibility check.
Un secondo sistema di controllo interno riguarda invece il migrante dal momento che è entrato in territorio nazionale ed è costituito da almeno tre strumenti diversi [37]:
1. un primo insieme di controlli è mirato ad evitare la creazione di discrasia tra le condizioni stabilite per l’ingresso del migrante e la sua permanenza sul territorio dello stato: strumento principale è il permesso di soggiorno che vincola i tempi e i modi di permanenza e poi ci sono meccanismi sanzionatori volti ad impedire la permanenza in caso di mancata documentazione o di violazione delle condizioni poste;
2. un secondo insieme di meccanismi riguarda il controllo dell’accesso al mercato del lavoro: come il permesso di lavoro o i meccanismi sanzionatori volti ad incoraggiare l’impiego di lavoratori irregolari o l’impiego irregolare di lavoratori “regolari” che riguardano le norme;

3. un ultimo insieme di controlli si esercita sull’uscita degli immigrati stessi dal territorio nazionale: si tratta ad esempio del rimpatrio o di un allontanamento coatto (espulsioni).


L’Europa ricorda sempre più una fortezza? Alcuni pensano decisamente di si [38]. "Saranno i prossimi anni a dirci se la nuova tendenza ad una strisciante chiusura delle frontiere prima o poi metterà capo ad una modello aggiornato della “fortezza Europa” di un tempo, che negli ultimi decenni L’unione Europea aveva lentamente incominciato ad abbandonare" [39].
Intanto, in un’ottica di globalizzazione fa ben sperare l’esistenza di un interesse internazionale affinché venga garantita la tutela dei flussi per motivi umanitari, specialmente di fronte all’atteggiamento negativo manifestato dalla popolazione dei cinque paesi più ricchi dell’Unione (Italia, Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna) verso gli immigrati.

Auspichiamoci allora che l’Occidente non risponda ancora alla continua domanda di immigrazione chiudendo le sue porte nell’idea di proteggere il suo benessere, anche perché un muro che protegge i ricchi non può resistere a lungo. Il mondo dovrebbe interrogarsi di più sulle strategie di gestione del conflitti per la promozione di una pedagogia dell’intercultura, per educare tutti alla convivenza.



[1] A. Giardina, G Sabatucci, V. Vidotto, Storia dal 900 ad oggi (nuova ed.), Editori Laterza, Roma-Bari 200, p. 565
[2] Ibidem
[3] Ibidem

[4] William I. Hitchcock, Il continente diviso. Storia dell'Europa dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2003, pp. 509-513
[5] Ibidem p. 510
[6] A. Giardina, G Sabatucci, V. Vidotto, op. cit., p. 566
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] Laura Franceschetti, Regolare l'immigrazione: il management dei flussi per lavoro in Europa, Franco Angeli, Milano 2004 pp. 28-30
[10] Ibidem
[11] A. Giardina, G Sabatucci, V. Vidotto, op. cit., p.566
[12] Ibidem p. 27
[13] Ibidem
[14] William I. Hitchcock, op. cit., p. 513-521
[15] Ibidem p. 513
[16] Ibidem p. 519
[17] Ibidem p. 518-521
[18] Ibidem pp. 521-527
[19] Ibidem p. 526
[20] Laura Franceschetti, op. cit., p. 97
[21] Ibidem p. 97
[22] Ibidem
[23] William I. Hitchcock, op. cit., p. 527-537
[24] Ibidem
[25] Ibidem
[26] Prefazione di Marcello Fedele al testo Laura Franceschetti, op. cit., p. 7
[27] William I. Hitchcock, op. cit., p. 537
[28]Ibidem p. 538
[29] Laura Franceschetti, op. cit., p. 45
[30] Laura Franceschetti, op. cit., p. 8
[31] Ibidem pp. 13, 14
[32]Ibidem p. 63
[33] Ibidem pp. 48, 49
[34]Ibidem pp. 50-53
[35] Ibidem
[36] Giuseppe Sciortino, L'ambizione della frontiera: le politiche di controllo migratorio in Europa, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 106-108
[37]Ibidem
[38] William I. Hitchcock, op. cit., p. 539
[39] Prefazione di Marcello Fedele al testo Laura Franceschetti, Regolare l'immigrazione: il management dei flussi per lavoro in Europa, Franco Angeli, Milano 2004, p. 9




Bibliografia
· Laura Franceschetti, Regolare l'immigrazione: il management dei flussi per lavoro in Europa, Franco Angeli, Milano 2004.
· William I. Hitchcock, Il continente diviso. Storia dell'Europa dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2003.
· A. Giardina, G Sabatucci, V. Vidotto, Storia dal 900 ad oggi, Editori Laterza (nuova ed.), Roma-Bari 2001
· Giuseppe Sciortino, L'ambizione della frontiera: le politiche di controllo migratorio in Europa, Franco Angeli, Milano 2000.

La costruzione dell’altro e la comunicazione della diversità. Oltre una visione dicotomica del mondo

rilettura degli appunti del seminario "Oltre l'orientalismo e l'occidentalismo"
Le migrazioni non sono un fenomeno storico moderno, tuttavia siamo in presenza di un fenomeno migratorio diverso per quantità e qualità che coinvolge tutti i continenti. Oggi si emigra da tutte le parti più povere del mondo a quelle più ricche e la scelta delle migrazioni segue una complessa rete di itinerari condizionata da fattori geografici, economici, politici e culturali. E’ innegabile, comunque che i grandi flussi migratori del nostro tempo costituiscono degli effetti macroscopici della disparità di sviluppo (economico, sociale, politico) fra i paesi ricchi e il resto del pianeta.

Il carattere incontrollabile e apparentemente inarrestabile dei fenomeni migratori del nostro tempo costituisce un grosso problema anche per l’Europa dove la questione tocca fortemente l’opinione pubblica: da un lato si è manifestata la tendenza a cogliere gli aspetti positivi dell’immigrazione, d’altro canto il fenomeno ha suscitato una forte reazione identitaria. Sicuramente l’incremento dei flussi migratori ha portato molto scompiglio e, talvolta, ha determinato manifestazioni di rigetto e di intolleranza preoccupanti perché nessuno – né le popolazione, né i governi - erano pronti a gestire la situazione.

I protagonisti dei flussi migratori sono tutti diversi per cultura lingua, religioni e valori ed è fondamentale che riescano ad integrarsi nei paesi dove migrano per lavoro e in cerca di una vita migliore; d’altro canto i popoli dei paesi meta di migrazioni devono essere educati e messi nelle condizioni di essere predisposti positivamente nei confronti di queste persone e preparati al cambiamento.
L’altro è una fonte imprescindibile di conoscenza sulla realtà, tuttavia la costruzione delle sue rappresentazioni funziona attraverso processi arbitrari di semplificazione e c’è una sorta di schizofrenia che ce lo fa vedere in maniera caricaturale tra fascinazione e criminalizzazione. La nascita di stereotipi è del tutto normale che avvenga: è il meccanismo naturale che usiamo per risparmiare risorse cognitive nel rapportarci con la realtà per cui la mente incorpora l’altro e ne fa un prodotto culturale. Lo stereotipo in particolare si inserisce all’interno di un vero e proprio modello culturale coerente e radicato. Il problema infatti è che quando entrano in gioco stereotipi e pregiudizi agli altri vengono attribuite identità fisse, sclerotizzate che non corrispondo a verità perché non considerano il processo di adattamento delle persone. In tal senso, per prendere coscienza, è importante conoscere quali sono i propri meccanismi di lettura della realtà e ricordare sempre che la cultura non è fissa e monolitica, ma di natura fluida e sempre in movimento.

Diversi modi di vedere la realtà non devono essere necessariamente messi in opposizione fra loro. E’ corretto riconoscere le differenze, il problema nasce quando queste vengono enfatizzate e fatte oggetto di politicizzazione. Ci sono due visioni del mondo in particolare che, nel nostro tempo, sono state presentate come opposte e che per questo sono diventate pericolose: è il caso dell’orientalismo (1978) e l’occidentalismo (2004). Queste visioni dividono il mondo tra Oriente e Occidente. Ma la polarizzazione geografica richiede uno sforzo mentale alle persone: solo con un’opera di grande semplificazione si può immaginare, a fatica, il pianeta diviso tra Oriente e Occidente perché i confini sono una costruzione mentale più che reale in fondo.

Dov’è il centro? L’idea della superiorità colloca il centro del mondo in luoghi diversi a seconda del paese di appartenenza del disegnatore della cartina geografica. Ad analizzare la questione bisogna stare molto attenti a non cadere nelle trappole dell’immaginario che ci fanno credere cose che non sono. A testimonianza di questo sappiamo tutti che non si può parlare di un Occidente compatto e cristiano: in realtà non ce ne sarebbe neanche solo uno di Occidente, ma due per la precisione! E poi l’Occidente è ancora occidentale? L’islam è in Occidente.
Hasan Hanafi prova a giustificare la necessità della polarizzazione del mondo alla luce di una comunicazione non paritaria tra popoli: va trovato un linguaggio culturale e politico che dia ai popoli afroasiatici una grammatica del senso. Nella visione di Hanafi, ad esempio, i popoli d’Oriente trattati come “l’altro” negli ultimi 700 anni sentono l’esigenza di ricostruire e controllare la propria immagine, il proprio “io”. Rileggendo la storia in termini di alternanza tra un’ egemonia culturale e l’altra, Hanafi crede che stia per iniziare una fase di egemonia dell’Oriente sull’Occidente: gli indicatori del declino della cultura occidentale risiederebbero in sintesi nell’idea della morte di Dio, mentre dall’altra parte risulterebbe una prova del cambiamento la riaffermazione dell’Islam militante e della teologia islamica della liberazione. Alla luce di questo pensiero dovremmo domandarci se esiste un’alternativa all’Occidente: l’unica alternativa potrebbe essere l’islam e per questo bisogna chiedersi anche se esista una via islamica alla democrazia. Questa visione non può considerarsi una proposta che vada oltre l’orientalismo e l’occidentalismo, ma si colloca benissimo nella situazione attuale dove risulta difficilissimo dare delle soluzioni.

E’ anche vero che conoscere l’altro è il primo modo per possederlo: l’egemonia non è altro che una forma di appropriazione dell’altro in termini politici. Questo può spiegare le resistenze all’idea di modernità da parte di molti popoli. Modernismo e colonialismo sono infatti considerati spesso sinonimi, l’idea che la tradizione rallenti la modernità ha fatto si che alcuni popoli siano andati a ridefinire le proprie radici per quello che non sono, distruggendo di fatto il passato. Andrebbe riformulato anche il concetto eurocentrico di laicità dello stato che purtroppo viene discreditato anch’esso dalla storia coloniale europea quasi come sinonimo di autonomizzazione del potere egemonico insieme: per cominciare questo concetto non trova corrispettivi positivi in tutto il mondo, ad esempio, per l’islam il rapporto fra uomo e Dio è considerato del tutto naturale. La globalizzazione stessa è stata letta da alcuni come forma di egemonia americana dell’ordine internazionale: quest’ordine sarebbe stato creato e mantenuto da uno stato egemonico impegnato a sagomare a proprio vantaggio le relazioni tra gli stati in modo coercitivo (imperialismo), basandosi sulla convergenza di interessi o mediante la creazione di istituzioni multilaterali basate sul mutuo consenso in grado di oscurare la gerarchia esistente (moderazione strategica).

Quando nascono delle tensioni è perché probabilmente ci stiamo mescolando tra persone che portano tante storie diverse addosso, tuttavia l’importante è che queste tensioni trovino dei canali per emergere senza essere negate né enfatizzate. Oltretutto spaccare il mondo in due blocchi e contribuire alla costruzione di un fossato immaginario è oltremodo insensato nell’ottica della globalizzazione stessa. In ogni caso nel mondo reale è difficile dire chi è la vittima e il carnefice di un conflitto perché entrambe le parti sono in concorrenza e ci si trova a fare i conti con due vulnerabilità che hanno bisogno di riconciliarsi socio-emotivamente e ristabilire un clima di fiducia. Ma le cause dei conflitti non c’entrano niente con la cultura, le culture non si scontrano, lo fanno le persone perché le risorse sono limitate o perché ci sono dei bisogni psicologici che necessitano di essere saziati.

L’evidente finalità sociale di questi concetti (oriente e occidente) è quella di spiegare noi stessi attraverso gli altri e di rafforzare il senso di identità e appartenenza. Si tratta di identità reattive che si alimentano a vicenda. Tuttavia queste categorie mentali oggi non sono sufficienti né esaustive per spiegare il mondo nella sua reale complessità.
I media giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di rappresentazioni, ovviamente anche delle rappresentazioni dell’altro: l’influenza sociale che esercitano ha molto a che vedere proprio con la percezione effettiva che abbiamo della realtà. Il sistema della comunicazione dovrebbe fermarsi a riflettere e fare un’attenta opera di autocritica. Il giornalismo in particolare viene spesso accusato di alimentare l’odio e di contribuire alla costruzione di un immaginario scontro tra civiltà che, come una specie di profezia che si auto-adempie, ci sta conducendo ai ferri corti verso un conflitto tra Oriente e Occidente che storicamente non ha ragion d’essere: il fatto è che si considera sempre l’evento, le visioni devianti con poche eccezione che non riescono a restituisce una rappresentazione dell’altro in condizioni di normalità. Invece dello scontro bisognerebbe promuovere un incontro di civiltà che tutto sommato hanno tante cose in comune: a sottolineare come in passato ci siano stati momenti di vivace sinergia che hanno portato ad un arricchimento collettivo.

Pensare che si siano delle strategie giornalistiche per discreditare l’altro mi sembra un po’ forte, ma ricorrono episodi di omogeneizzazione e decontestualizzazione dei fatti dove gli altri per di più sono protagonisti in casi di estremismo violento, agenti di azioni negative, esclusi o fanno qualcosa al di fuori della mentalità predominante. Il rischio, non da poco, è quello di incappare in una guerra fra opposte ignoranze! Parafrasando una famosa citazione non è importante che una cosa sia vera, ma è sufficiente che venga creduta vera per avere effetti reali.
L’Europa in tutto questo continua a sentirsi minacciata dal fenomeno migratorio persistente e assomiglia ogni giorno di più ad una fortezza: è accecata dal timore di essere fisicamente sommersa da ondate di popoli più numerosi e demograficamente vitali e la caduta dei grandi sistemi ideologici ha contribuito, nel tempo, ad alimentare vecchie identità nazionali e religiose che sono state riscoperte e gelosamente difese. Intanto l’impatto della globalizzazione sta mettendo in crisi la stessa idea ottocentesca dello stato nazionale come comunità sovrana e compatta al suo interno. E’ proprio in questo modo trova senso il progetto di unità sovranazionali come la stessa Unione Europea, ma anche l’esplosione di micro nazionalismi, localismi e separatismi che vanno ad alimentare la tensione. Saranno i prossimi anni a dirci se la nuova tendenza ad una chiusura delle frontiere prima o poi metterà capo ad un modello aggiornato della “fortezza Europa” di un tempo. Lo spazio euro-mediterraneo però potrebbe ancora tornare ad essere un centro di pace e di scambio interculturale. In questo senso si colloca l’idea di creare l’Unione Mediterranea su un modello sagomato sul G8 e tutte le iniziative di cooperazione culturale finalizzate ad aumentare la reciproca conoscenza: la questione più controversa resta il processo di pace in medio oriente per il quale il partenariato euro-mediterraneo risulta essere invece piuttosto debole

A dispetto della paura, comunque, il continente europeo non è stato capace e non può permettersi di mettere fine all’immigrazione: sembra proprio che all’Europa serviranno milioni di lavoratori se vorrà mantenere la sua crescita economica in futuro, anche a fronte del rallentamento della sua crescita demografica. Inoltre l’immigrazione dovrebbe essere considerata portatrice di nuovi valori, nuove usanze e culture superando unicamente la visione dell’afflusso di altra forza lavoro: da qui l’esigenza di interrogarsi di più sulle strategie di gestione del conflitti per la promozione di una pedagogia dell’intercultura, per educare tutti alla convivenza civile. Fa ben sperare anche l’esistenza di un interesse internazionale affinché venga garantita la tutela dei flussi per motivi umanitari.
A mio avviso bisognerebbe studiare con maggiore attenzione le rappresentazioni dell’altro nello spazio euro-mediterraneo in termini di cultura, politica ed economia: l’impressione è che si stia sottovalutando il problema e che i tentativi di risolverlo siano stati fatti solamente in termini economici e/o politici nella maggior parte dei casi. Nella realtà delle cose i tre elementi sono fortemente interconnessi e la cultura comunque non andrebbe mai sottovalutata.

Sicuramente c’è bisogno di un nuovo racconto della realtà! Nel rappresentare l’altro rappresentiamo noi stessi, ma soprattutto non dovemmo mai dimenticarci che l’altro è dentro la comunità che cambia e non al di fuori di essa immobile e monolitico.

mercoledì 2 aprile 2008

Buon Compleanno MESSAGGI

Oggi compie 1 anno di vita l'Associazione culturale senza scopo di lucro MEssaggi e colgo l'occasione per salutare tutti gli amici che ci hanno aiutato e fare gli auguri a tutti i soci!!

Il Presidente
CC